sabato 9 maggio 2009

L'ANIMA BUONA DEL SEZUAN - Bertolt Brecht (by Carla MayrHofer)

Regia: Elio De Capitani e Ferdinando Bruni
Compagnia/Produzione: Teatro Stabile di Genova
Cast: con Roberto Alinghieri, Alice Arcuri, Marco Avogadro, Fabrizio Careddu, Margherita Di Rauso, Rachele Ghersi, Alberto Giusta, Gianluca Gobbi, Orietta Notari, Nicola Pannelli,Fiorenza Pieri, Ernesto M. Rossi, Vito Saccinto, Federico Vanni scena e costumi Andrea Taddei musiche Paul Dessau suono Renato Rinaldi luci Sandro Sussi


Avrei voluto scrivere qualcosa io per dire quanto questo spettacolo non solo mi sia piaciuto (fatto 100, é 300; per dirla come un amico mio) ma anche mi abbia sconvolto nel profondo e cambiato profondamente (teatro epico?), ma poi ho letto su internet le belle parole di Strehler su quest’opera e … ubi maior minor cessat …
Un abbraccio da Carla


È un Brecht molto umano quello di Sezuan, lineare e severo: la tensione stilistica è assoluta. Non si limita all’enunciazione di fatti e a raccontare una parabola sulla bontà. L’anima buona di Sezuan è una delle opere di Brecht più risolte dal punto di vista estetico, poetico e perfino formale e il pubblico, al Teatro Studio, a diretto contatto con gli attori, con i piedi quasi sul girevole che porta avanti e indietro il destino degli uomini, avrà modo di toccare con mano queste emozioni dello spettacolo.
Stiamo vivendo l’insostenibile contemporaneità di un mondo che mostra sempre di più la sua essenza crudele, un mondo, anzi, dove la faccia della durezza è diventata un valore per dare dignità ai nostri egoismi: per questo, in questa edizione, la protagonista si trova, alla fine, con le mani rivolte verso il pubblico a chiedere aiuto, a domandare se è possibile cambiare il mondo. Soli non si riesce a fare nulla, il destino è nelle mani degli uomini, non fuori dagli uomini, e non solo degli uomini buoni. L’uomo solo diviso tra il bene e il male sarà sempre destinato a vedere le sconcezze della vita come se esistessero solo nel piccolo schermo della televisione.
Hitler o i criminali di guerra che vanno in giro tronfi in “Mercedes” dopo aver massacrato i civili in nome di una folle pulizia etnica, sono mostri? No, erano, sono, uomini mostruosi. I mostri li costruiamo noi. In un mondo che va verso il gelo e la non-comunicazione o la comunicazione distorta, dove i sentimenti sono spariti per fare posto alle emozioni cosiddette forti ed effimere, virtuali, urlate e trasmesse a ritmo di spot pubblicitari, bambini che muoiono di fame e subiscono inenarrabili violenze, Sarajevo, la Cecenia, di nuovo e sempre la pulizia etnica, solo noi possiamo fermare la barbarie, la violenza e l’orrore che ci circondano in un mondo che sempre di più separa invece che unire.
Riproporre oggi l’opera di un autore scritta in un’epoca ormai lontanissima per noi, il 1939, alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, significa riproporre una grande tragedia contemporanea che ci sta addosso, che riguarda tutti. Anche questa volta, riprendendo uno spettacolo che avevo già allestito nel ’58 e poi nell’80, mi sono trovato dinnanzi un testo sconvolgente, di una contemporaneità e una pertinenza rispetto alle cose che abbiamo davanti agli occhi, che mi sembra scritto non oggi ma addirittura domani o dopodomani. L’attualità di Brecht sta nella ricchezza dei suoi contenuti e nella sua grandezza poetica.
In questo testo si discute di cose eterne, della lotta fra il bene e il male: la nostra condanna è di dover essere cattivi per poter fare il bene. La parabola ammonitrice è questa. Brecht si è posto alcune domande fondamentali sul bene e sul male, sull’essere buono e sull’essere cattivo in generale, ma soprattutto su tutti noi che viviamo con queste due anime dentro, quella buona e quella cattiva, quella bianca e quella nera. Sa bene che non basta più essere buoni, che bisogna lottare contro l’ingiustizia, bisogna travestirci anche noi con la maschera della cattiveria per scacciare la cattiveria dal mondo.
Brecht ha lasciato il finale aperto. Per questo è stato criticato, perché non diceva chi era buono e chi era cattivo, non esibiva la bandiera rossa o quella azzurra, suggeriva semplicemente che una soluzione l’uomo doveva trovarla. Questa è la vera lezione brechtiana e mi sento di dire che il lavoro con e su Brecht è appena cominciato; la grande lezione brechtiana è ancora tutta da apprendere.
Un teatro di interrogativi di fronte all’esistenza dell’uomo, un teatro che riguarda il vivere civile, ma detto con parole e con gli enigmi della poesia perché è impossibile pensare a un teatro che prescinda dall’umanità. Credo che una delle grandi forze del teatro sia la sua capacità di attraversare il tempo e i muri, di irradiarsi al di fuori. L’audience di una trasmissione televisiva può essere di milioni di persone, ma quanti “vivranno” quello che vedono? E quanti milioni hanno visto l’Amleto di Shakespeare da quando è stato scritto? Ma queste opere e le parole che hanno ascoltato, le emozioni che hanno provato si sono cucite sulla loro pelle, sono entrate nel loro modo profondo di pensare, nella cultura, li hanno, poco o tanto non importa, trasformati. Io credo a questo potere, all’intensità della rappresentazione, come una specie di messaggio sulla non-violenza che conquista gli uomini: il teatro in cui credo non aggredisce, cerca piuttosto di indurre al cambiamento. Faccio teatro perché la gente lo ami, lo capisca, lo discuta, perché qualcosa di quello che abbiamo detto in palcoscenico resti nel cuore di altri uomini come noi, che sono gli spettatori. Ecco perché questa parabola drammatica ritrova, se mai l’avesse persa, un’attualità e una necessità tragica, una forza ancora più sconvolgente sotto la luce implacabile del teatro, nostro specchio e nostra vita.
Giorgio Strehler

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