venerdì 15 marzo 2013

LA RIUNIONE - di Piergiorgio Calanchi


Buongiorno miei lettori! (fa anziano questa introduzione?), volevo dirvi che il pezzo di oggi non è mio, ma di un amico: Piergiorgio come avrete potuto leggere. Io l'ho trovato bello e gli ho detto che lo avrei pubblicato volentieri a patto che avesse messo il seguito, quindi vediamo se riusciamo a convincerlo tutti insieme. Piergiorgio ha già scritto in questo blog nel passato, quindi non sarà una sorpresa, anche se questo suo genere è diverso dai precedenti. Non vi rubo ulteriore tempo e vi auguro una buona lettura!
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Le odio queste riunioni


. Nel mezzo dell’intervento del direttore


commerciale un pensiero si fece strada improvvisamente nella mente di Giulio
Eremita.

Odio stare chiuso in una stanza, per quanto grossa sia, insieme ad altri


duecento disperati, ad ascoltare stronzate di cui mi frega poco o niente. E poi non
si vede nemmeno che tempo fa fuori.





In effetti la sala in cui si teneva l’annuale meeting della Wise Italia, filiale della
statunitense Wise Ltd., spaziosa e lussuosa, arredata con un gusto barocco non
permetteva la minima distrazione. Un palcoscenico basso con un podio dietro cui
l’oratore di turno parlava agli astanti, uno schermo per la proiezione di diapositive
e filmati ed una coppia di potenti altoparlanti erano situati di fronte a dieci file di
venti sedie ciascuna. Le sedie erano al momento occupate da duecento dipendenti
più o meno annoiati, in attesa dell’unica presentazione che li interessasse sul serio:
quella in cui il direttore generale avrebbe comunicato loro l’ammontare del bonus
annuale.




Odio il fatto di essere in un albergo a cinque stelle dove non andrei mai se dovessi
pagare io, in una città che non ho mai visto e non avrò il tempo di visitare neanche
questa volta.





Un po’ per distrarsi, un po’ per abitudine professionale – era il responsabile
aziendale per la sicurezza – Giulio lasciò scorrere lo sguardo sulla sala meeting,
annotando sistematicamente le finestre coperte da pesanti tendaggi alla sinistra
del podio e le due uscite d’emergenza, con porte tagliafuoco e munite di
maniglione a spinta, situate a destra del palco, in cima ad una rampa di cinque
gradini.




Bella stronzata. Un disabile su una sedia a rotelle farebbe una brutta fine se
dovesse evacuare la sala in fretta. E quelle tende? Pesanti come sono non lasciano
filtrare la minima luce. Senz’altro frutto dello studio di qualche cervellone sulla
maggior produttività dei meeting se non ci si può distrarre guardando fuori.
Dubito persino che siano ignifughe.





Da tre anni alla Wise, Giulio aveva sviluppato un certo distacco verso questi
happening aziendali che si ripetevano la prima settimana di novembre e che lui
considerava momenti artificiali ed avulsi dalla realtà di tutti i giorni. Non che ne
disconoscesse l’importanza; all’università si era sobbarcato più di un esame sulla
motivazione del personale, solo che il cameratismo forzato e la finta allegria a
tutti i costi non gli erano mai piaciuti. Certo, si era a contatto con la direzione, si
poteva venire a conoscenza della strategia dell’azienda per l’anno successivo, si
poteva intuire – dalla disposizione delle sedie della prima fila, quella riservata al
consiglio d’amministrazione – quale fosse la cordata vincente in quel momento e a
quali porte bussare per ottenere favori. Molto più importante, c’erano buone
possibilità di finire a letto con quella collega sposata che per tutto un anno ti aveva
guardato in uno strano modo. Un bell’albergo, una buona cena e tanto ottimo vino
fanno miracoli.
Giulio sorrise tra sé ripensando alle decine di aneddoti che i colleghi si
tramandavano, ingigantendoli di anno in anno, sul lato sessuale di queste riunioni.




Se ne fosse vera solo la metà questa notte mi scoperei Laura di sicuro


pensò


fissando la nuca della ragazza seduta sulla sedia davanti a lui. Con i suoi ventotto
anni era di due anni più giovane di lui; mora, minuta, snella, un bel fisico,
un’intelligenza viva che traspariva dai suoi occhi scuri, era capace di far voltare più
di una testa quando entrava in una stanza affollata.

Eppure in lei c’è qualcosa che


non mi convince; sembra quasi che stia sempre recitando una parte, che indossi
una maschera. Ogni tanto, quando crede che nessuno la guardi, lo sguardo le
diventa di ghiaccio, l’espressione le si indurisce. In quei momenti mi fa paura.





“E nonostante il calo dei consumi riscontrato nel corso di quest’anno in seguito alla
crisi siamo fiduciosi di centrare tutti gli obiettivi che ci siamo prefissi in sede di
budget quest’anno.” La voce del direttore commerciale si intromise nei pensieri di
Giulio.

Tu saresti fiducioso di centrare gli obiettivi di budget anche se fossimo a


meno 20% il ventiquattro dicembre. Però forse quest’anno ce la facciamo sul serio.
Evidentemente chi ha fatto il budget sapeva il fatto suo.





Improvvisamente una donna urlò dall’ultima fila. Fu un urlo isterico, acuto, con il
caratteristico timbro che denota la completa perdita di controllo, che lacerò l’aria
coprendo la voce amplificata del direttore commerciale. Giulio si voltò insieme ad
altre duecento persone ma al contrario della maggior parte di loro capì
immediatamente che cosa stava succedendo. O meglio: lo percepì, perché se si
fosse fermato a riflettere su quello che i suoi occhi stavano trasmettendo al
cervello sarebbe rimasto inchiodato al suo posto, terrorizzato, come tutti i suoi
colleghi.
Dalle due porte situate in fondo alla sala erano entrati cinque camerieri. No:
cinque uomini

vestiti da camerieri. Però grossi, talmente grossi che le loro giacche


bianche erano tutte sformate.

Come se sotto indossassero dei piumini. Erano tutti


armati di mitra. Giulio non ne capiva molto di armi, ma sapeva riconoscere il
profilo snello e il caricatore a mezzaluna di un AK-47 quando lo vedeva; era il
fucile mitragliatore più fabbricato al mondo, parto della mente dell’ingegner
Kalashnikov, l’arma preferita da talebani e terroristi, che in quei giorni erano in
televisione un giorno sì e l’altro pure.




Professionisti


fece appena in tempo a pensare Giulio. Era l’unica parola che i


movimenti misurati ed evidentemente provati all’infinito dei cinque faceva venire
alla mente; appena entrati si disposero a ventaglio e ad Giulio parvero cinque
fotocopie; di media statura, la carnagione olivastra, i capelli neri tagliati corti e gli
occhi neri ne tradivano l’origine mediorientale; uno aveva la barba lunga, un altro
il pizzetto, un terzo gli occhiali ma per il resto erano sostanzialmente
indistinguibili. Barba e Pizzetto si mossero velocemente verso la sinistra della sala;
il primo si fermò all’altezza dell’ultima fila, il secondo corse senza fare il minimo
rumore fino al vertice sinistro del palco, tenendo sotto tiro una metà della platea.
Lo stesso fecero gli altri due, sulla parte destra. Il quinto restò in piedi, in fondo
alla sala, per bloccare l’uscita centrale, sotto gli occhi atterriti di duecento
persone, nessuna delle quali aveva mai visto una squadra d’assalto in azione.
Reagirono in due: Luigi, un ragazzo grosso e muscoloso, un commerciale dell’area
Sud con la passione per la palestra e Stefano, il tecnico del suono, snello ed
allampanato, seduto a fianco dell’uscita. Luigi, reagendo allo shock ed alla paura si
alzò dall’ultima fila avventandosi verso il cameriere col pizzetto, il più vicino a lui,
con il pugno pronto a colpire; contemporaneamente Stefano si tuffò aldilà della
soglia cercando di raggiungere il corridoio.
A nessuno dei due andò bene.
Pizzetto schivò il pugno di Luigi con facilità irrisoria; quindi sfruttando lo
sbilanciamento dell’avversario gli piantò violentemente le dita rigide nel plesso
solare. Luigi si piegò in avanti mentre i suoi polmoni reclamavano aria ed il finto
cameriere, con un’economia di movimenti invidiabile, lo colpì con il gomito alla
schiena e con il ginocchio al volto. Luigi cadde e non si mosse più.
Il tuffo di Stefano venne intercettato dal quinto uomo del commando che lo afferrò
per la vita trascinandolo nuovamente all’interno della sala; quindi, per farlo stare
buono, gli si chinò sopra, piantandogli violentemente il mitra nella guancia. Come i
membri di una squadra di basket che seguono uno schema preimpostato i cinque si
ridisposero: i due dell’ultima fila si mossero verso il centro, mentre quelli vicini al
palco scalarono di qualche passo verso il fondo della sala.
Il tutto si era svolto nel più assoluto silenzio nel giro di dieci secondi.
“Silenzio, per favore. Signore e signori, mi chiamo Samir e voi siete miei
prigionieri.” La voce era calma, di una freddezza glaciale ed emanava un’autorità
assoluta. Proveniva dal quinto cameriere, ancora chino su Stefano, evidentemente
il comandante del gruppo. Era una voce che esigeva obbedienza e non ammetteva
risposte negative. Samir si alzò e fece due passi nel corridoio tra le sedie, facendo
scorrere lo sguardo sulla platea. Quando incontrò i suoi occhi Giulio vi scorse
qualcosa di




malvagio





estremamente pericoloso appena sotto la superficie, come se la razionalità e
l’addestramento che i cinque avevano dimostrato rischiassero da un momento
all’altro di essere spazzati via da una reazione




folle





incontrollata. Quell’uomo dagli occhi duri e




morti





spietati, comprese Giulio, avrebbe potuto ucciderli tutti senza provare la benché
minima emozione.
Giulio non fu il solo a sentirsi gelare il sangue nelle vene; due file davanti a lui, alla
sua sinistra, vide le spalle di una ragazza sollevarsi, segno inequivocabile che si
stava preparando un urlo e probabilmente l’inizio di una crisi isterica.
L’impercettibile movimento venne scorto anche da Samir, che si avvicinò alla
ragazza con due lunghe falcate decise e le troncò l’urlo appena iniziato con un
violento manrovescio; la ragazza cominciò ad iperventilare finché non venne zittita
da un altro schiaffo. Contemporaneamente, all’unisono, i quattro camerieri
spostarono le canne dei loro mitra di qualche grado, in modo da continuare a
tenere sotto controllo tutta la sala.
Giulio era il portiere in una squadretta di calcio di dilettanti; era bravo, grazie
all’istinto ed a riflessi da gatto; gli capitava spesso di veder partire un tiro e un
battito di ciglia dopo si ritrovava a terra, con il pallone tra le mani, mentre il
cervello stava ancora cercando di processare le informazioni e decidere il da farsi.
In quei momenti era come se l’istinto cortocircuitasse il pensiero razionale e
prendesse il controllo del corpo, permettendogli di reagire in un tempo
infinitamente più breve del normale. Succedeva un po’ come quando si tocca un
oggetto incandescente e si allontana la mano prima che i nervi abbiano fatto in
tempo a trasmettere al cervello la sensazione di dolore ed a ricevere di ritorno
l’impulso cosciente di togliere le dita dal fuoco.
Per schiaffeggiare la ragazza Samir aveva dato la schiena alla parte di sala dove
Giulio era seduto. Giulio avvertì, più che vedere, il mezzo secondo di distrazione
dell’uomo che aveva abbattuto Luigi, che stava iniziando a riaversi e




adesso!





senza rendersi conto di quello che stava facendo si alzò ed afferrò Laura per un
braccio. In due passi furono ai gradini, mentre Pizzetto si mosse per inseguirli. Quel
gesto dettato dall’istinto del cacciatore e non dall’addestramento fu il primo
errore di uno dei cinque commandos e salvò la vita a Giulio e Laura;
inavvertitamente infatti Pizzetto sporcò la linea di tiro a Samir, che aveva già
imbracciato il mitra. Resosi conto dell’errore Pizzetto si gettò a terra, ma in quel
mezzo secondo Giulio, trascinandosi dietro Laura, aveva aperto la pesante porta
antipanico ed era già oltre la soglia. Pizzetto si alzò da terra e girò la testa verso
Samir con aria interrogativa. Il comandante guardò a turno ciascuno dei membri del
commando e poi, assicuratosi che la situazione era sotto controllo, fece cenno al
suo uomo di andare. Il finto cameriere si mosse velocemente verso i gradini.
“Cosa…cosa…” Aldilà della porta Laura, ancora evidentemente sotto shock,
non si era probabilmente nemmeno resa conto di trovarsi fuori dalla sala.
“Zitta. Non devono capire che siamo ancora qui” Giulio fece per guardarsi intorno,
poi vide la porta tagliafuoco aprirsi ed un braccio vestito di bianco, armato di
mitra, spuntare dall’interno.
Ancora una volta l’istinto di Giulio ebbe la meglio; sfruttando il momento di tutti i
suoi ottantacinque chili l’uomo si catapultò contro la porta di acciaio che schiacciò
braccio e fucile di Pizzetto contro lo stipite. Con uno schiocco secco entrambe le
ossa dell’avambraccio si spezzarono di netto; il commando lasciò cadere il mitra
con un grido soffocato di dolore; invasato, con l’adrenalina che gli scorreva a fiumi
nelle vene, Giulio chiuse ancora violentemente la porta colpendo ancora Pizzetto,
questa volta alla testa, e scaraventandolo giù dalle scale. Quindi si appoggiò di
schiena alla porta chiusa ansimando.
“Cosa… è successo?” La voce piatta e monocorde di Laura lo riportò bruscamente
alla realtà: era appoggiato alla porta di una sala in cui avevano appena fatto
irruzione cinque uomini armati. Il Kalashnikov per terra a due metri dai suoi piedi
ne era la prova tangibile. Meccanicamente Giulio lo raccolse e ne fu stupito dalla
leggerezza; trovò la levetta della sicura e la attivò, quindi prese per il braccio una
Laura ancora incapace di reagire e la trascinò lungo il corridoio, con l’istinto di
sopravvivenza che gli urlava nelle orecchie di allontanarsi di lì.
Dall’altra parte della porta tagliafuoco, Samir guardò Pizzetto con un misto
di disgusto ed ammirazione. Disgusto perché, dopo tutto l’addestramento al quale
si erano sottoposti per la missione, dopo tutta la fatica fatta, il dolore e le infinite
volte che avevano provato e riprovato, non era possibile farsi fregare in quella
maniera da un civile; ammirazione perché, proprio grazie all’addestramento,
Pizzetto stava reagendo in modo meraviglioso. La perdita di uno o più uomini del
commando era stata prevista, ovviamente; tutti sapevano cosa fare nel caso
qualcuno fosse stato ucciso o ferito, e Pizzetto, in modo completamente
automatico, quasi senza pensare ed ignorando il dolore come era stato addestrato
a fare, stava dirigendosi alla postazione di Barba: i due si sarebbero scambiati
compiti, ordini e ruoli, visto che quello di Barba era quello che richiedeva il minore
sforzo fisico. Contemporaneamente il Dottore (un vero medico radiato da tempo
dall’ordine per la sua propensione a prescrivere oppiacei previo compenso anche
quando le condizioni del paziente non l’avrebbero strettamente richiesto) aveva
già aperto la sua borsa magica e si stava preparando a steccargli l’avambraccio.
Alla fine l’ammirazione ebbe la meglio sul disgusto: gli imprevisti capitano, ma con
una squadra così il fallimento non era un’opzione da considerare.
E poi c’era sempre l’asso nella manica.
Samir si girò e, camminando con passi controllati, percorse tutto il corridoio fino
alla pedana dell’oratore. Si girò, guardando le duecento persone impietrite di
fronte a lui e riprese a parlare come se nulla fosse successo.
“Come vi dicevo, sono Samir e voi siete miei prigionieri. Le regole di
comportamento alle quali mi aspetto che voi vi atteniate per tutto il periodo in cui
resteremo insieme sono le seguenti. Vi prego di ricordarle perché non verranno
ripetute. Prima regola: nessuno si muoverà, parlerà o si alzerà senza permesso.
Seconda regola: il permesso si chiede alzando la mano. Terza regola: gli ordini che
vi impartiremo verranno eseguiti immediatamente. Quarta regola: chi trasgredirà
ad una regola prenderà una pallottola in un ginocchio. Il nostro valente Dottore “ e
qui Samir accennò col capo all’uomo che aveva finito di bloccare il braccio di
Pizzetto “si assicurerà che non moriate dissanguati ma non vi darà nulla per
calmare il dolore. Non siamo animali, ma non possiamo tollerare alcuna
disobbedienza. Non vi chiederò se ci sono domande, dato che le istruzioni sono
talmente chiare che persino un bambino potrebbe capirle.”
“Un’ultima cosa,” disse Samir dirigendosi allo zaino che aveva lasciato in fondo alla
sala, vicino alla postazione del tecnico audio ed estraendone un oggetto nero, poco
più grande di un pacchetto di sigarette. “Non vi prenderò i telefonini, visto che
questo jammer”, premette un pulsante e una luce verde si accese sulla scatoletta,
“impedirà a chiunque di comunicare con l’esterno.”
“Cosa è successo esattamente là dentro?” Una volta girato l’angolo del
corridoio Laura afferrò il braccio di Giulio costringendolo a fermarsi. “Chi sono
quelle persone? Che cosa vogliono? E adesso cosa facciamo?”
Giulio appoggiò l’automatico alla parete e si portò entrambe le mani al volto, come
per riflettere. “Chi sono quelle persone? Sicuramente criminali, probabilmente
terrroristi. Mi sono sembrati mediorientali, quindi direi che sono estremisti
islamici. Sembrano ben addestrati, quindi avranno un piano. Probabilmente
avranno delle rivendicazioni folli e irrealizzabili. Cosa facciamo noi? Usciamo di qua
di corsa e diamo l’allarme prima che qualcuno dei nostri colleghi ci lasci la pelle.
Questa è una cosa grossa, arriveranno i ROS e le forze speciali e noi siamo gli unici
ad aver visto cosa è successo, dobbiamo dare loro tutte le informazioni possibili.”
Giulio si girò per riprendere l’AK-47 e correre verso l’uscita… E si bloccò di scatto.
La canna del fucile mitragliatore, finito come per magia in mano a Laura, era
puntata esattamente in mezzo alla sua fronte. L’espressione sul viso della ragazza
era di ghiaccio.
“E bravo il nostro Giulio. Hai azzeccato quasi tutto, lo sai? Una cosa sola non hai
considerato. Un piano come quello ha bisogno di un infiltrato all’interno
dell’obiettivo, di un basista. E quell’infiltrato sono io. Adesso voltati e torniamo in
sala. Non fare scherzi. Non vogliamo uccidere nessuno ma non siamo disposti a
correre rischi.” La canna dell’AK-47 ondeggiò brevemente in direzione della porta
della sala. “Muoviti.”
Sebbene scioccato, Giulio capì di non avere scelta. Girò sui tacchi e si diresse verso
la porta di sicurezza a testa bassa.

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