domenica 24 gennaio 2010

L’Africa e la Colonia

A metà dicembre Gina, Pina, Lina e Giuditta decidono di andare in vacanza a gennaio. Identifichiamo le protagoniste se no, non siete contenti! Allora Romina, regina della ristorazione, in altre parole la commenta come giornalista e cucina come Vissani, Claudia, la contessa del mercato mobiliare, che mi consiglia appunto di tenere i miei risparmi sul libretto postale della nonna, Simonetta, l’anestesista, è sempre confortante avere un medico a portata di mano, sperando comunque di non averne bisogno e di non incontrarla mai sul posto di lavoro! Meta prescelta la Tanzania e per essere precisi Zanzibar, evidente colonia italiana. Tanto per farvi un esempio, le bancarelle nelle capanne sulla spiaggia hanno i seguenti nomi: Ipercoop, Armani d’Africa, Mariella Burani, un vero intenditore quello che ha suggerito questo brand, non so neppure se esista ancora, ma supporta il mercato di nicchia, ma il professionista della vendita ci si avvicina sulla spiaggia, dove stiamo facendo una lunga passeggiata e ci sottopone un volantino home made: BENVENUTI NEGOZIO DI GUCCI DI ZANZIBAR – IO VENDE TUTTI TIPI DI LEGNO, SPEZIE, BATTIQ (mi domando se invece di essere una tela tinta a mano non picchiano la gente su commissione…), COLLANINE, CARTOLINE, ANCE VESTITI (ance? Saranno lance? Anche? Pance? Che diavolo vende? Sovrappeso? Mah…), PAGHI DUE PRENDI TRE (avantissimo anche la promozione!!!) VICCINO SPIAGIA VENTAGLIO, meno male che abbiamo anche l’indicazione geografica, metti che ci perdiamo In ogni caso stoiche resistiamo alla tentazione di comprare monili, quadri, magliette o qualunque altra cazzata di cui abbiamo già discusso in un post precedente. Non ho più pareti e i quadri della Tanzania già stanno sopra il mio divano.
Un altro incontro interessante fatto durante le interminabili passeggiate è quello con un ragazzetto Masai che gioca a pallone.
Abbigliato da guerriero, lunga tunica rossa e nera, capelli lunghi intrecciati in modo molto complicato, scarpe fatte con il copertone delle auto, strette da un laccio e lancia. Insomma una visione veramente poetica, un guerriero vero (si insomma quasi, un guerrierino dato la giovane età) che gioca con gli amichetti al tramonto. Lancia la palla verso di noi ma nessuna risponde, insomma, non per cattiva volontà, ma alla nostra età uno scatto ginnico potrebbe costare molto caro, la palla scappa via verso l’onda e il Masai si volta verso di noi piuttosto contrariato, vi prego di notare la finezza di questa definizione, perché dopo pochi istanti si rivolge a noi chiedendoci in italiano perché non abbiamo preso la palla, dopo una breve giustificazione molto educata della dottoressa, il Masai esordisce con un: “Mi avete inculato il pallone”. Ah complimenti per la conoscenza della lingua. Ammutolite dalla sorpresa procediamo a passo spedito verso una palma, dobbiamo assorbire il colpo!
Durante la vacanza abbiamo avuto anche un momento ecologico. Su uno degli alberi vicino all’ingresso notiamo un sacco di nidi, da cui vanno e vengono dei canarini gialli bellissimi, ci avviciniamo per fotografarli e Romina esclama: “Guarda che bello!" È uscito dal nido e sta appeso a testa giù, fotografiamolo!”, facciamo un reportage degno della Reuter quando ci accorgiamo con l’astuzia di Piero Angela che il povero volatile si è incastrato e non riesce a staccarsi. Ma sarai scemo che rimani impigliato a casa tua? Per fortuna dopo due minuti di volo isterico e di nostri tentativi di salvataggio vola via libero. Ci rendiamo conto che forse non abbiamo l’animo del tutto verde, perché passiamo i successivi cinque minuti a ridere.
Un’altra esperienza memorabile della vacanza sono le immersioni. Non ne faccio da quasi due anni e quindi ne approfitto per fare un pomeriggio di ripasso teorico e pratico. Mi sottopongono un questionario di trenta domande e comincio a sudare. Se sbaglio muoio circondata da aragoste? E vado nel paradiso delle mante, nel purgatorio del pesce pietra o nell’inferno degli squali? Concentrazione, concentrazione. Sintomi della narcosi da azoto: eh? Ma me lo date in italiano per favore? Ah, è già in italiano, bene. Che cosa fate se vedete uno squalo? Probabilmente gli sorrido e gli stringo una pinna, no? Meglio essere educate. Se siete scesi a 22 metri per 47 minuti dato il tempo di compensazione nello spazio infinito, la seconda discesa a 18 metri per 38 minuti quanto tempo di decompressione necessita? Direi sale e pepe quanto basta e ed è certo che mi partirà un embolo. Poco male, una morte abbastanza gloriosa direi.
Insomma passo alla pratica e mi danno una muta, pinne e maschera. Tempo di vestizione 2h e 40. La muta è facile da indossare come per un cammello passare per la cruna di un ago. Dopo la prima ora e mezza sono riuscita a infilare le gambe, mentre il sedere sta ingloriosamente fuori e cerco di inserirlo come quando infili la camicia nei pantaloni, il tutto su un pavimento scivoloso dove sto prendendo di sicuro un fungo esotico. Allo scadere delle 2 ore sto infilando il torace e alle 2 ore e 15, le braccia ma non riesco a far uscire le mani, quindi sembro subnormale, un strano incrocio fra una donna e una lontra. Alla fine del processo però enorme soddisfazione, sotto talmente sottovuoto che sembro un giunco, peso stimato 40 chili a occhio, potrei usare questa combinaison per andare in ufficio, un figurone farei.
Pensate che sia finita vero? Invece no, perché ora mi tocca infilare le pinne, e poi il giubbotto con attaccata la bombola da quindici chilogrammi netti, sono impalata sul bordo della piscina, con le pinne che sporgono e tento disperatamente di mettere la maschera cercando di non perdere l’equilibrio altrimenti cado all’indietro trascinata dal peso dell’armamentario senza alcuna possibilità di rialzarmi salvo intervento di un caterpillar.
Testo il respiratore in cui avranno sbavato almeno un altro migliaio di sconosciuti e poi il tipo mi dice: fai un salto a sforbiciata ed entra il più lontano possibile dal bordo. No, ora dico, ma per chi mi hai preso per la Comaneci? Ma non posso buttarmi di faccia punto e basta? Insomma sforbicio e mi butto, dopodiché cominciamo gli esercizi furbi: togli e metti la maschera sott’acqua, cosi se tutto va bene soffochi cieca in piscina invece che in alto mare, scambia il respiratore con il vicino per raccogliere l’ultima coltura di microbi, fai esercizi di stabilità sdraiata come una sogliola e per finire ripasso dei segni di comunicazione con le mani. Vi dico solo che per un italiano è immensamente più difficile visto quanto gesticoliamo e vi dico solo che il gesto comune di “va tutto bene” che noi usiamo, in altre parole il pugno con pollice alzato, in mare significa voglio risalire in superficie perché c’è qualcosa che non va, fate un po’ voi… pure sott’acqua ci tocca approfondire il tema dell’incomunicabilità.
Insomma riemergo e vedo le mie amiche che mi guardano con ammirazione mista a compatimento. Da notare che se fossi abbordato in tenuta da sub sarebbe amore vero, perché si tratta della combinazione di abbigliamento sportivo meno seduttiva del mondo e non sembri certo Eva Kant quanto ti togli la maschera e un otto di silicone ti rimane tatuato intorno agli occhi.
L’uscita prevede due immersioni la stessa mattina e dopo un percorso di quaranta minuti con un motoscafo che fa i 140 nodi e che farebbe vomitare anche il capitano Achab, arriviamo a destinazione. Il mio compagno d’immersione è John, inglese di Cambridge, che pare esperto e che invece, mi accorgerò a mie spese alla seconda immersione, non ha capito che non devi mai perdere di vista il tuo compagno e se non lo vedi per un minuto intero, devi risalire a cercarlo. Infatti, io dopo trenta minuti trascinata dalla corrente riemergo a 100 metri di distanza e l’eroe risalito dopo cinquanta in tutta tranquillità mi dice: “Oh ma sai che ad un certo punto non ti ho più visto? Ma dove sei sparita?”. MA BRUTTO DEMENTE E SE ERO MORTA AZZANNATA DA UNA MURENA, IN NARCOSI DA AZOTO (non so cosa sia ma fa molto grave direi) O RAPITA DA JACK SPARROW (nel caso poteva lasciarmi li)? Insomma per fortuna che tra la prima e la seconda immersione ho avuto incontri ravvicinati con tartarughe marine, murene, aragoste, stelle marine ciccione e pesci napoleone enormi. Questo ha compensato la sensazione di abbandono provata alla risalita imprevista della seconda in mare aperto a 500 metri dalla barca più vicina suonando il fischietto come i superstiti di Titanic.
Per riprendermi dallo choc al rientro vado con le ragazze a farmi il solito aperitivo molto cool a base di zenzero, ginger insomma, solo che qui pizzica di brutto e la musica che ci accoglie è: Ne me quittes pas, che per una che vuole disintossicarsi dalla Francia non è di certo il massimo!
La vacanza volge al termine ed è quasi ora di tornare, come negarci però il piacere del solito set di foto all’arcobaleno?
Questa volta totalizzati ventidue arcobaleni in quattro, niente male come risultato e neanche un palo della luce. Si può ancora migliorare. Alla prossima!

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