lunedì 24 agosto 2009

Nadia e Florence dopo 15 giorni

6) Il tuc tuc, più noto come Riscio’. Non un mezzo di traporto, ma una minaccia. E’ un’ape car cabriolet gialla, l’antenato del taxi milanese suppongo. Vi ispira un casino vero detto cosi? Ecco prima di lasciarvi trascinare dall’entusiasmo vi domando cortesemente di salirci sopra e di attraversare Mission Street all’ora di punta. Salta un pedone, punta due biciclette, scarta una vespa, sfiora una moto, il tutto su una corsia che non é di certo la sua. Ma questo non ha importanza la regola é stare dove ci sono 50 cm di asfalto liberi. La retromarcia é manuale, nel senso che scende e sposta il mezzo a mano, cambio a leva di fianco al piede, clacson rappresentato da una tromba da stadio perché deve compensare la dimensione del mezzo con il rumore. Numero di incidenti rischiati in 500 metri almeno 7, mesi di vita persi 3, capelli bianchi comparsi sul capo almeno 15. Da provare.
7) Il Kafar. Definito più propriamente “scarafaggio”. Dopo la prima apparizione in bagno e la sua fuga con sberleffo, l’impudente decide di ripresentarsi quattro giorni dopo, un afoso mattino di agosto, di fianco al mio barattolino di Nivea, senza alleati, dilettante. Quando sto per afferrarlo, il barattolo, non lui, percepisco un’ombra nera e mentre mi domando, ombra rispetto a cosa, lui decide di muoversi. AAAAAAHHHH! Stavolta pero’ sono pronta, la scarpa giace dietro la porta, lasciata li appositamente con l’intenzione di uccidere, l’afferro e sgnac! Spiacente. Ritenta, la prossima vita sarai più fortunato.
8) Il disinfettante per le mani. Penso che la quantità di questo prodotto usata da me e Florence durante i quindici giorni sia pari solo a quella delle puntate di ER, tutto il dottor House, Grey’s Anatomy, qualche scena del dottor Kildare, 7 episodi di Quincy e 22 episodi di Nip and Tuc. Ogni cosa che abbiamo mangiato, rigorosamente con le mani, sapeva di peperoncino e di disinfettante gusto rosa. Una nuova accoppiata. Ad ogni pasto, furtivamente estraiamo la bottiglietta, una versata, una strofinata e via un tuffo delle dita nel riso. Se dovessimo star male, non pensate che si tratti del cibo, si tratta della sostanza chimica disinfettante, ne siamo sicure.
9) Il caldo. Premetto che dopo due anni di vita a Parigi io amo il caldo, anelo la canicola, desidero l’insolazione. Credo pero’ di avere sottovalutato la temperatura di Pondicherry: 42° di giorno con un’escursione termica di 9° che riduce la temperatura notturna a 33°, il che é molto lontano dal rendere necessario un paio di calzini. Alle 4 del pomeriggio abbiamo regolarmente un calo di pressione, geografie di sudore si disegnano sulle nostre magliette e sui pantaloni chiaramente lunghi per ragioni di conformità culturale con il paese ospitante, il ventilatore a pale pare emettere aria da phon, sto meditando di mettere dei bigodini per sfruttare l’evento quando Florence si accascia sulla tastiera ed io mi accascio su una sedia fino all’arrivo del Tchai, il the nero di cui abbiamo già parlato, a temperatura ustione. La dose di zucchero e latte ci permette di tirare le 7, ora in cui usciamo in strada e affrontiamo il traffico con un aspetto fisico raccapricciante: fronte lucida, capello spento, gelsomino appassito e tshirt che pare uscita da una battaglia idrica.
10) Il clacson. COSA? NON SENTO? COSA STAI DICENDO? EH?? Mi spiace ma a seguito di questo viaggio non possiedo più un apparato uditivo, si prega quindi di scrivermi invece di parlarmi grazie. EH? COME? QUANDO FACCIO I SUFFUMIGI? EH? AH NO QUANDO RIENTRO A PARIGI? Vabbé, lasciamo perdere vah, COME? VUOTI A RENDERE?

Un’altra cosa importante da segnalare é la localizzazione dell’immondizia: OVUNQUE. Quando svuotano i tombini, di cui preferisco non citare il contenuto, tutto viene delicatamente appoggiato per strada, non esistono bidoni della spazzatura, quindi le cose si accumulano sul ciglio delle vie generando un tripudio di colori, ma soprattutto di odori. L’immondizia oltre ad essere una moderna metodologia di arredamento é anche l’alimentazione delle vacche, che saranno pure sacre ma mangiano rifiuti, probabilmente perché sanno che tanto poi non saranno cibo per nessuno, una sorta di vendetta, certo che la vacca che mangia la calce pero’... suppongo avrà problemi digestivi e di transito, non voglio neppure immaginarmelo.
Un’ulteriore nota, una sera, di ritorno da Surguru, il nostro ristorante indiano preferito, arredato in stile minimalista, ove per minimalista intendo stile mensa, solo tavoli e sedie di plastica, placche in domopack al soffitto, in caduta libera che a momenti falciano un bambino, nessuna posata prevista; nel bel mezzo di una discussione sulla spazzatura (certo, tematica di un certo spessore culturale), scorgiamo di lontano un camion con i lampeggianti: il camion della nettezza urbana! Si, si, si! Ci precipitiamo per filmare il grandioso evento. Poveri innocenti e sprovveduti ragazzetti. Si tratta di una betoniera, enorme, che macina sabbia e che.... DECIDE DI SCARICARLA DAVANTI A NOI NEL CANTIERE ADIACENTE! Troppo tardi per la fuga, rimaniamo li, paralizzati dalla sorpresa, mentre lui spietato lascia cadere una tonnellata di sassi e sabbia, una coltre di polvere di ricopre, sembriamo mummie, ci guardiamo e ci viene troppo da ridere, siamo veramente al minimo storico di livello igienico in quindici giorni! Potremmo tirare su un muro con quello che abbiamo addosso. Alla fine compriamo una bottiglia di acqua per impastare il cemento e ci avviamo verso casa lasciando tracce bianche dietro di noi peggio di Pollicino con i sassolini o Lapo Elkann con altro.
Comunque decalogo e altre amenità a parte, abbiamo anche fatto un paio di gite. Il sabato di libertà gita ad Auroville, centro di meditazione yoga. La cosa divertente di ogni uscita é che il vero polo attrattivo siamo noi, cosi straordinariamente bianchi, rari ed evidentemente pure un po’ ridicoli, perché ad ogni breve sosta ci viene richiesto di partecipare a foto di gruppo e dopo una mezz’ora ci sentiamo già delle vere star! Un gruppo di ragazzi di un’università della capitale, ci chiede anche l’indirizzo email per poterci scambiare le foto, ci chiedono come mai siamo li e da dove veniamo, un fiorino (citazione da Non ci resta che piangere, ndr).
Il pomeriggio lo trascorriamo in una piccola gioielleria il cui proprietario mi vuole in sposa, come moneta di scambio, dopo che lo stremiamo per circa un’ora e mezza in negoziazioni di tappeti, anelli e orecchini. Per un attimo vedo l’’occhio di Florence brillare di gioia quando capisce che lasciandomi li avrà in dono un magnifico anello d’argento e pietre dure grande come un Ferrero Rocher, poi per fortuna l’amicizia prevale sulla cupidigia e dichiara di aver promesso al mio fidanzato di riportarmi indietro (come le sarà venuto in mente???) mi getta in macchina e gli promette che se il fidanzato mi dovesse lasciare mi rispedirà indietro, rifletto un attimo e penso che oltre al Briatore delle Mauritius abbiamo anche un Aga Khan di Auroville, in fondo é consolante sapere di avere un piano B.
Quando il processo si conclude lui é sull’orlo dell’esaurimento, Lalida, la nostra accompagnatrice indiana ha guadagnato un tappeto gratis e noi siamo sedute a terra (sai che novità) a bere tchai circondate da stuoie, cuscini e collane. Chiaccheriamo con lui per un’ora abbondante e poi ce ne andiamo con il nostro bottino.
Un ultimo evento da segnalare é la vestizione con il sahari. Dobbiamo indossarlo di primo mattino, per recarci a scuola da dove poi partiremo per il Festival di Veerampatinam. Il primo componente é un top che ci é stato fatto su misura dello stesso colore del velo. Ecco appunto, su misura non vuol dire che deve seguire le nostre dimensioni fisiche? Evidentemente no, perché io che lo provo per prima, mi trovo strizzata in un trapezio di stoffa che faccio fatica ad allacciare e che una volta terminato di agganciare mi impedisce la respirazione. Florence cade sul letto con le lacrime agli occhi quando mi vede sottovuoto come in un corpetto dei primi dell’ottocento, ma la sua risata si esaurisce tristemente al tentativo di infilare il suo, quando la mancanza di fiato le impedisce di proferire parola. Decidiamo di muoverci in apnea perché il benché minimo movimento potrebbe generare lo strappo, quindi respiriamo solo una volta ogni venti minuti.
Indossiamo la sottogonna e poi dobbiamo gestire i due metri e mezzo di sahari. Ma dove diavolo lo facciamo passare? Prese dallo sconforto ci avvolgiamo alla bell’e meglio, tanto poi qualcuna ci sistemerà e usciamo con l’aspetto di due mummie venute male e stranamente colorate. Giunte alla scuola vi lascio solo immaginare la faccia delle ragazze che ci accolgono: disgusto e disapprovazione condite da una palese vergogna. Ci nascondono in ufficio e ci sbendano per ricominciare tutto daccapo. Usciamo dopo 35 minuti di attività di restauro e la conferma che il top deve essere aderente, la respirazione non é rilevante. In effetti la differenza si nota, ora invece di avere nodi e colline abbiamo cinque pieghe sul petto e cinque pieghe sul ventre che creano un’eleganza naturale e soprattutto permettono di camminare senza dover sollevare le sottane, cosa che nella versione precedente non era prevista.
Incredibilmente trascorriamo tutta la giornata cosi, riusciamo a prendere il tuc tuc, camminare alla fiera, pranzare a casa di Jenith Esua, un nostro alunno, con le mani, sedute per terra, ve lo ricordo nel caso non foste attenti, andare a bagnare i piedi in mare, breve riposino alla guest house sdraiate come salme per non ciancicarci, ritornare a scuola, partecipare a tutta la cerimonia di distribuzione dei diplomi, passeggiata in centro e poi cena finale di gruppo in un ristorante dotato finalmente di forchette. CAMPIONESSE DEL MONDO, CAMPIONESSE DEL MONDO! Siamo riuscite a non rimanere in mutande, evento straordinario, meriteremmo un premio che sarà sbottonare il corpino malefico che avendo un laccetto sulla schiena che va da una spalla all’altra rimane tatuato stile mezzaluna a causa delle tre ore che abbiamo trascorso a picco sotto il sole. No comment, una riga bianca che non se andrà mai.
Insomma ridendo e scherzando siamo giunte alla fine della vacanza, mancano solo quattro ore di macchina e dodici di aereo e poi saremo di nuovo in patria! Non male. Solo una breve segnalazione relativa al tratto Pondicherry – Chennai. Dopo un’ora di macchina in cui siamo solamente in nove su una jeep, la solita, l’aria condizionata smette di funzionare, o meglio viene spenta perché genera la fuoriuscita di fumo dal cruscotto che non é certo un evento rassicurante. Sosta pranzo in un “ristorante” sul ciglio della strada rappresentato da: una capanna di foglie di banano, tavolacci in legno, due cani in libera circolazione sui quali si agitano colonie di pulci e mosche, una foglia di banano come piatto, che viene lavata con l’acqua locale (la probabilità che la maledizione di Shiva che ancora non ci ha colpito si abbatta su di noi si alza al 98%), una cucchiata di riso bianco, una di barbabietola, l’unico alimento capace di far piangere Florence dal disgusto, una di funghi, credo si tratti di amanita muscaria e una salsa vegetale che viene sdraiata sul riso, con una tale concentrazione di peperoncino che la foglia di banano rimane parzialmente deturpata per autocombustione. Sopra il tutto viene depositata una frittatina probabilmente arrostita su una lamiera esposta al sole. Sopravviviamo anche a questo.
A pochi chilomentri dall’aeroporto tutta la macchina comincia a fumare, impossibile fermarsi subito, siamo imprigionati nel traffico delle venti, dopo dieci minuti approdiamo ad un distributore, l’apertura subitanea del cofano fa saltare via il tappo del radiatore, Patricia e Vincent che sono con noi ma hanno un volo anticipato, stanno per perderlo, vengono quindi caricati su un tuc tuc e consegnati all’aeroporto mentre noi con la mia torcia a dinamo cominciamo a cercare il tappo. La scena é veramente esilarante, se non fosse che il proprietario del distributore viene a dirci che essendo a rischio di esplosione non possiamo stare in prossimità delle pompe e quindi dobbiamo sgommare! Miracolosamente il tappo riappare, versiamo due litri di Levissima nel serbatoio e ripartiamo sprezzanti del pericolo e riusciamo ad arrivare incolumi all’aeroporto. Passiamo ventuno controlli passaporto, bagagli, febbre, massa grassa, tasso alcolico, % di cellulite, conoscenza dell’inglese, domanda di geografia, dire, fare, baciare, lettera e testamento e poi veniamo abbandonati in una sala d’attesa che non ha neanche il numero del gate di imbarco esposto. Attendiamo un’ora e mezza dopodiché il numero del gate viene appiccicato in maniera davvero poco rassicurante, con un foglio di carta ad una porta, siamo pronte per partire. Back home! Il nostro regno per una doccia, una sedia ed una forchetta! Wanakam!

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